Il vedovo inconsolabile di Fidel Castro – Una cosa non si può negare al giornalista Gianni Minà, scomparso da qualche giorno: la sua dedizione alle variegate cause del sud del mondo – da Maradona al subcomandante Marcos, da Rigoberta Menchù a Carlos Monzón, fino alle complesse vicende politiche dell’America latina, in particolare di Cuba – e l’attenzione verso le minoranze sfavorite, che videro nell’attenta narrazione della storia umana e sportiva di Cassius Clay-Mohamed Alì un perfetto paradigma.
Tutti gli riconoscono la capacità di aver dato ai suoi servizi, inclusi quelli riguardanti lo sport di cui fu attento osservatore, un taglio del tutto particolare, potremmo definirlo socio-emozionale; tutti ricordano la sua amabilità e la larghissima lista di contatti che gli permisero d’intervistare personaggi di rinomanza mondiale.
E questo glielo riconosciamo pure noi.
Doverose precisazioni
Senza però dimenticarci alcune cose, che debbono completare il quadro umano e professionale del giornalista scomparso.
Ossia la sua faziosità.
Il che non è – di per sé – un difetto o un demerito, poiché appartiene alla natura dell’uomo ma che non può essere esclusa dall’economia del giudizio, ove si voglia valutare obbiettivamente la sua opera, sfociata nella comunicazione, nella formazione culturale, nella ricostruzione storica; e sempre che la partigianeria non si traduca in offesa alla verità.
Parliamoci chiaro. Il suo preteso anticonformismo – abbracciare le ragioni degli ultimi e dei “perseguitati” – è sempre stata una causa facile e già vinta in partenza; non è da oggi che una larga parte dell’informazione del mondo occidentale – è qui che il nostro operava e sguazzava – si è votata ad abbracciare ogni tensione anti-occidentale, anti-colonialista, anti-imperialista, progressista e, perfino, a giustificare ribellioni violente e armate purché provenienti da sinistra.
Minà rules
È in questo milieu culturale e in quest’atmosfera fintopacifista che Minà si muoveva e si sapeva muovere, certamente approfittando di quella sensibilità e capacità empatica che favorivano l’essere percepito come giornalista equilibrato e disinteressato.
Il suo procedere felpato e i suoi modi sornioni – tipici di un gatto, a cui il nostro assomigliava pure fisicamente – lo hanno tenuto lontano dalle polemiche quotidiane, e in quest’oasi di libero sfogo informativo lui si muoveva a piacimento, senza eccessive difficoltà.
In fondo l’esperto dell’America latina era lui, chi altri avrebbe potuto contestarne l’autorevolezza, metterne in dubbio le soavi sentenze pronunciate con quell’espressione accattivante, dubitare della bontà delle sacrosante cause da lui perorate?
Giù le mani da Cuba
Fidel, il Che e la Revolución sono stati al centro delle sue attenzioni.
Si racconta – e sarà senz’altro vero – che nel corso del Mundial argentino del 1978, inviato per seguirne gli sviluppi, osò chiedere a un ufficiale qualcosa sui desaparecidos, ciò che gli costò l’espulsione immediata dal paese.
Analogo zelo, il nostro, non ebbe però a mostrare nel corso dell’intervista concessagli dal suo amico Fidel Castro l’anno successivo, ripresa nel documento registrato intitolato “Fidel racconta il Che”, dove il líder máximo dipinge il quadretto idilliaco della sempiterna amicizia fra lui e il comandante, accompagnato dal sorrisetto compiaciuto e ruffiano dell’intervistatore.
Senza che il nostro avesse l’ardire di chiedergli cos’era invece accaduto all’inizio di quel fatidico 1965, dove si era consumata la rottura fra i due; determinata dalla dura critica che, nel corso di una conferenza celebrata in Algeria, il Cheaveva rivolto all’URSS, colpevole ai suoi occhi di operare nel commercio internazionale alla pari di qualsiasi paese capitalista.
Giornalismo o propaganda?
La qual cosa aveva fatto imbestialire Fidel, che dell’aiuto economico sovietico aveva bisogno come dell’ossigeno, pena la regressione dell’isola all’età della pietra nel giro di una settimana.
Tanto che, al ritorno dell’Argentino, i due si erano affrontati con toni durissimi; prologo del successivo allontanamento del Che da Cuba e la sua rinuncia a ogni carica e, persino, alla nazionalità che gli era stata a suo tempo conferita. E della sua tragica fine in Bolivia.
Ma Gianni Minà non è uomo da polemiche, no? E suona tanto carino, tanto soave, tanto rassicurante sapere che sull’isola benedetta dalla Revolución tutto filava liscio e regnava la perfetta armonia.
E che Fidel non era assolutamente un dittatore.
Intervistato nel 2016, in occasione della morte di Castro, il nostro, vedovo inconsolabile, a una domanda in cui si citava l’affermazione di Trump che definiva l’ex leader cubano “un dittatore”, rispondeva con le esatte parole “Trump che ha affermato questo è un comico, non ha una cultura per affermare questo tipo di analisi…”.
Gatti e coccodrilli
Insomma, le uniche analisi accettabili sono le sue Arbiter elegantiarum della verità rivoluzionaria, gatto sornione della rivoluzione, gatto con gli stivali inchinato davanti agli stivali lucidi di Fidel.
Noi, che non ci facciamo prendere per il naso e travolgere dall’ondata di coccodrillate ma che, a differenza di altri, non siamo portati a sparare sentenze – né di condanna né assolutorie, perché sempre rispettosi del dubbio – ci limitiamo ad esprimere una speranza.
Che il dio dei giornalisti e dell’informazione lo perdoni, dopo averlo purgato, però, della sua felina doppiezza, fatta di miaomiao accomodanti e di ronron rassicuranti, che però nascondevano verità sanguinose e imbarazzanti.
Applicandogli la legge del contrappasso; ossia ascoltare, senza fiatare, i racconti delle decine di migliaia di vittime innocenti di quella Revolución e di quei presunti “perseguitati” a cui sempre rivolse il suo sorrisetto compiaciuto e ruffiano.