Immigrazione, colonialismo e conseguenze – Nelle estenuanti dispute sulla tragedia dell’immigrazione, si fa spesso riferimento alle sue cause dirette e indirette.
Alle condizioni socioeconomiche e politiche delle terre patrie dalle quali provengono i migranti, caratterizzate dalla miseria e da conflitti cruenti.
Irrompe nel dibattito il mantra dell’aiutiamoli a casa loro.
Slogan così semplificato da prestarsi sovente all’ironia beffarda e dissacratoria degli stessi immigrazionisti.
Se ci si soffermerà sul cosa fare senza spiegare “come farlo”, una tale formula resterà solo gargarismo concettuale: buono magari per vezzeggiare l’elettorato di destra, ma senza entrare nel cuore del problema.
Invece di fronteggiarlo in guisa risolutiva.
Affrontiamo il tema africano, sulle tappe storiche che hanno condotto questo grande continente nell’alveo di una crisi senza via d’uscita.
Negli ultimi secoli l’Africa ha vissuto la lunga stagione del colonialismo.
Senza trascinarsi troppo nei dettagli, questa fase si dispiegò in un clima di repressione e prevaricazione, da un lato: di civilizzazione -secondo i parametri nostri- dall’altro.
Senza il contributo degli europei, le popolazioni dell’Africa subsahariana fino all’estremità “australe” permanevano nella loro condizione arcaica e tribale.
Non sappiamo stabilire se ciò sia un bene o un male.
Conoscere il progresso tecnico, seppur per via riflessa, e poi ritrovarsi nel lungo periodo con un pugno di mosche in mano, pare non abbia giovato.
Ha prodotto in questa gente un senso di infelicità, di inferiorità e di frustrazione che prima, forse, non avevano.
La storia, però, come i fiumi, si avvale dei suoi decorsi, le sue deviazioni, le sue discontinuità, le sue affluenze.
Tutto secondo l’eraclitiana e immutabile legge del divenire, dalla quale nessuno può sottrarsi.
Nemmeno gli africani.
La favola marxista
Negli ambienti marxisti e progressisti circola la filastrocca dello sfruttamento coloniale, del suprematismo bianco, dell’assoggettamento. Essa è vista come tara d’origine della povertà attuale in Africa.
Malgrado la decolonizzazione, sempre a parer loro, lo strascico di quell’oppressione avrebbe infiacchito la tempra di quelle genti.
Incapaci, quindi, di risollevarsi “motu proprio” dallo stato di torpore ed inerzia in cui sono franate.
Ma è vero anche il contrario.
Ovvero che la dipendenza coloniale aveva anche abituato costoro all’idea di una vita migliore.
Giacché provvedeva solo l’europeo, con il suo ingegno e le sue vaste conoscenze, a risolvere ogni contingenza, ogni problema tecnico, organizzativo ed economico.
L’esempio della Liberia
E inoltre, a confutare l’alibi della colonizzazione come causa di depauperamento affiora come controprova la realtà di paesi fuori dell’orbita del dominio europeo, come la Liberia.
Oggi questo paese ha l’85% della popolazione indigente e un reddito procapite di 2 euro al giorno.
E non solo.
In Africa vissero grandi civiltà nel passato, con un elevato livello di progresso e di incivilimento.
Ebbene, non v’è traccia di continuità tra gli africani contemporanei e quelle culture, né un barlume di retaggio.
D’altronde, senza gli archeologi europei, gli autoctoni manco avrebbero saputo della loro esistenza.
È stato facile poi per certi capibastone dell’anticolonialismo, tipo Mandela e Mugabe, richiamarsi impudicamente a quelle esperienze storiche pur di rafforzare il loro desiderio di affrancamento.
Altra colpa inflitta al colonialismo europeo il lascito di una suddivisione sbagliata dei domini coloniali, poi assurti a stati indipendenti.
La Conferenza di Berlino
La spartizione della “torta africana” suggellata dalla Conferenza di Berlino del 1884, sarebbe avvenuta senza tenere conto delle infinite peculiarità etniche disseminate nel Continente.
Dato incontestabile.
Non è, tuttavia, esatto ascrivere a un suddetto errore di delimitazione dei confini l’infinita catena di conflitti etnotribali che lacerano l’Africa.
Per due ordini di motivi.
In primis, agli africani è ignota la forma dello Stato-Nazione.
Non avendone minima concezione nel loro immaginario culturale definire diversamente i confini è difficile.
In secundis, tutti gli Stati Nazionali, per definizione, non sono omogenei.
Molti presentano varie particolarità etniche e regionali, a volte anche motivo di attrito e conflittualità (es in Spagna catalani, baschi, galiziani). Ma questo non inficia la coesione né la prosperità economica e sociale di quei paesi.
Vero spartiacque si rivelò invece la marxistizzazione post-coloniale ed antioccidentale dei regimi africani.
Con essa si finì per tagliare con l’accetta tutto quanto afferisse alla precedente esperienza coloniale. Compresi quel poco di benefici arrecati agli autoctoni (grazie anche ai missionari cattolici) in termini di responsabilizzazione, intrapresa, istruzione, organizzazione.
Quei regimi alla mercè di élite tribali corrotte e prevaricatrici oscillavano dai rapporti con gli ex colonizzatori (o con l’URSS) e una politica improduttiva di assistenza parassitaria.
L’Africa francofona
Autentico veleno per le relative popolazioni che pervase dai falsi miti progressisti abbandonarono i campi per accalcarsi “proletariamente” nelle grandi città. Un esempio è dato dall’Africa francofona, tutt’oggi sotto il tallone economico e monetario dei transalpini.
Proprio da quell’area oggi germinano le principali rotte migratorie verso l’Europa.
L’incapacità di darsi uno sviluppo autonomo ha legato mani e piedi tali paesi allo strozzinaggio del Fondo Monetario Internazionale da cui poi la depredazione delle loro risorse.
E soprattutto non aver dato luogo a una classe media ben istruita e qualificata, amplifica in essi il concetto di perenne dipendenza alle multinazionali e ai suoi interessi famelici.
Aggiungiamo poi la Cina come nuovo soggetto dominante.
In luogo dell’ignavia europea, provvede essa a ri-colonizzare vasti territori africani, edificando nuove città e assumendo il controllo dell’estrazione mineraria.
Difficile comprendere se alla base del mancato sviluppo si deve una certa indole infingarda dei neri.
Idea stigmatizzata perfino dal Guevara.
Oppure che la perenne miseria in cui versa tale continente sia da relazionarsi ad impedimenti di natura storica e ambientale.
A parte rari esempi concretamente “auto-decisionali” come quello di Sankara, non s’intravede nell’orizzonte africano una reale volontà di uscire dall’impasse.
L’esacerbarsi di siffatte condizioni, vuoi anche per la siccità, lo sterile inurbamento e l’esponenziale crescita demografica, sono il preludio di un’esplosione migratoria dalle fattezze bibliche.
E l’Italia?
Di fronte a tanto l’Europa, preda della retorica terzomondista, resta miseramente a guardare e a piangere i morti in mare. Mentre qualcuno seriamente finisce per rimpiangere l’epopea coloniale.
E i primi a farlo, i somali e gli eritrei che tuttora rievocano in positivo il ricordo della presenza italiana.
Malgrado la voragine generazionale che li divide da quell’esperienza, le intangibili realizzazioni e le testimonianze a loro tramandate rappresentano la consapevolezza minima per capire i benefici arrecati dalla nostra opera di civilizzazione.
Nuovo colonialismo europeo?
È evidente che allo stato attuale un neocolonialismo nelle forme ottocentesche sarebbe improponibile come idea. Ma una sorta di “adozione a distanza” su scala nazionale, dove ciascuna nazione occidentale prenda in sua tutela uno singolo stato africano, senza propositi di sfruttamento, procurerebbe vantaggi agli uni e agli altri.
I poteri globali, dal loro canto, ostacolano l’innesco di tale circolo virtuoso trovando sempre modo di accrescere la crisi e il caos a quelle latitudini.
Mario Pucciarelli