Gianni Brera: un lumbard italianista – A trent’anni dalla sua tragica dipartita, il 19 dicembre, ci sembra doveroso ricordare una grande penna come Gianni Brera.
Nato nel 1919, da un’agiata famiglia del pavese, Brera trascorse gli anni giovanili alternandosi tra pratica sportiva e gavetta giornalistica.
In pieno conflitto mondiale si arruola nel corpo dei paracadutisti e, come egli stesso riconoscerà, ciò gli valse una sporadica collaborazione tra le pagine de Il Popolo d’Italia.
Apparterrà, mai sapremo se per convinzione o per opportunismo, alla schiera di italiani che traslocarono armi e bagagli nelle file della “resistenza”.
Molto originale la sua vanteria di partigiano innocuo. Di non aver mai sparato un colpo né come milite, né in veste di imboscato.
Fu l’incipit della sua avventura postbellica di giornalista e scrittore.
Avrà modo di occuparsi di atletica e ciclismo. Appena trentenne – 1949 – gli è affidata la direzione della Gazzetta: quotidiano che condurrà per 5 anni.
L’Arte pedatoria
La vera passione di Brera, però, rimane il calcio, da lui battezzato come “arte pedatoria”.
Negli anni a seguire dalle pagine de Il Giorno , del Guerin Sportivo, de Il Giornale montanelliano e infine di Repubblica, sarà un continuo fluire di articoli corredati da una prosa forbita, originale , intrisa di citazioni filologiche e vernacolari, di aneddoti storici, discettazioni etno-antropologiche e, soprattutto neovocaboli che avranno il merito di affrancare il nostro gergo calcistico da esotiche subordinazioni.
La Crusca del calcio
E’ sufficiente pensare a termini come contropiede, centrocampista, melina, incornata, rifinitura, traversone o allegorie del tipo “fare la barba al palo”, tutt’oggi sedimentate nella nostra “Treccani sportiva”.
Paradigmatico fu questo suo sovranismo linguistico antelitteram: gran cosa, considerato lo smodato vezzo attuale di albionicizzarsi ovunque e dovunque. Perfino nel battezzare provvedimenti governativi (recovery fund, spending review, job ‘s act) in quella che è la patria del latino.
Le idee sull’Italia
Brera amava definirsi un “lombardocentrico” e questo gli alienò le simpatie di molti italiani, segnatamente del centrosud, i quali vedevano nelle sue sortite etnologiche una forma più o meno strisciante di lombrosianesimo (pare avesse chiesto a Mennea di lasciarsi misurare il cranio).
Attribuiva, però, i mali del sud non alla natura dei meridionali, quanto al vento di scirocco, tanto insopportabile da vanificare ogni sano spirito di intrapresa.
Nel complesso il suo regionalismo non confliggeva affatto con una visione nazional-identitaria – come vedremo -: era solo di complemento.
L’Italia di Brera è vista come una jungla di culture e di diversità, ma coagulata da comuni denominatori che davano unicità e originalità alla sua “schiatta”.
Catenaccio
Per questo si fece deciso assertore del calcio difensivo all’italiana “catenaccio e contropiede”.
Metodologia conforme alla nostra natura italica, al fisico poco prestante delle sue leve, alla tenacia e alla scaltrezza che ha caratterizzato per millenni gli abitanti di questa terra impervia.
Celebrò il “metodo” di Vittorio Pozzo additandola come tattica intelligente per competere contro la forza e la superbia della scuola danubiana. Negli anni 50 e 60 imbastì la sua polemica contro il doppio WM (o sistema) di inglese fattura. Tanto alla moda in quel tempo, quanto poco acconcio perché richiedeva gran fisico e pieni polmoni per sorreggerlo.
Il battitore libero
Propose in suo luogo il catenaccio e contropiede, con marcature rigide e creazione di un ultimo bastione difensivo, il cosiddetto battitore libero.
Patrocinò per questo Nereo Rocco, espressione più schietta ed efficace del gioco difensivo, foriero dei trionfi internazionali del Milan.
A questo, va aggiunta la grande stima nutrita per i Trapattoni e i Bearzot che adattarono con la “zona mista” lo spirito di arroccamento italico alla modernizzazione del gioco.
Fino all’ultimo rimase coerente con le sue idee di autarchia tattica, non intruppandosi alla moda zonaiola integrale e belgiochista di natura esterofila, che aveva in Sacchi il suo principale caposcuola.
Insomma, un plauso al Giuanin nazionale, ricordandolo per la sua coriacea autonomia intellettuale, esemplare in un mondo giornalistico sempre più irretito al conformismo tipico dei sofisti cosmopoliti, desiderosi del “diverso”, dell’esotico, pur a costo di svilire o tradire tutto ciò che sia pertinente alla propria cultura d’origine.