Alfredo Cospito, un anarchico al 41 bis – Le ricorrenti considerazioni sul compito rieducativo della pena – espresse anche recentemente dal ministro della giustizia Nordio – finiscono spesso per oscurare una funzione che il positivista e padre del diritto penale italiano, Gian Domenico Romagnosi, aveva acutamente riassunto nel termine “controspinta”.
Essa è rappresentata dal dolore procurato, attraverso la pena, a chi commette un crimine, questa fungendo pure da deterrente volto a impedire la futura commissione di reati.
Che la pena debba determinare anche un patimento, oltre a svolgere un compito di prevenzione, è cosa da cui pare difficile dissentire e in tal maniera è sentita, interpretata e approvata dalla stragrande maggioranza del corpo sociale.
La funzione della pena, una questione annosa
Per quanti buoni propositi sulla abolizione dell’ergastolo o addirittura della reclusione carceraria si possano coltivare, resta il fondamentale principio della correlazione fra colpa/espiazione che è semplicemente non sradicabile poiché iscritta nell’animo umano e nel dna di ogni ordine sociale, da qualunque sistema politico esso sia retto.
Caso mai, è la misura dell’afflizione e la sua proporzionalità/funzionalità rispetto al principio – costituzionale ma, soprattutto, sacrosanto – della rieducazione e dell’inserimento sociale che dovrebbe impegnare le riflessioni degli addetti ai lavori, salvo chiedersi quale sanzione, diversa dalla limitazione della libertà – in una prospettiva di espiazione/prevenzione/riabilitazione – sarebbe alternativamente concepibile e praticabile.
Salvo abbracciare la sublime idea dostojewskiana, espressa in “Delitto e castigo”, dell’afflizione redentrice, potremmo continuare a discettare a lungo su quella vexata quaestio e, quindi, per giungere a una conclusione che sia concretamente declinabile in termini d’attualità, esaminiamo in estrema sintesi la vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito.
L’art.41 bis
Il quale è stato condannato per la gambizzazione di un dirigente dell’Ansaldo nel 2012 e per l’attentato alla scuola di Carabinieri di Fossano, avvenuto nel 2006, qualificato come strage (intesa, dal punto di vista giuspenalistico, come azione capace di porre in pericolo la pubblica incolumità, col fine, anche eventuale, di uccidere) ancorché non abbia provocato morti o feriti,
Detenuto da dieci anni, Cospito, è stato posto sette mesi fa in regime di 41 bis.
Si tratta di una norma dell’ordinamento penitenziario che, inizialmente prevista per i condannati appartenenti a organizzazioni mafiose, stabilisce severe limitazioni alla già ridotta libertà, in particolare le comunicazioni con l’esterno.
Prevedendo divieti di ricevere e tenere in cella oggetti normali, come per esempio i libri, restringe anche le occasioni di socialità con gli altri detenuti e riduce i colloqui coi parenti a una sola occasione al mese, ponendo così il destinatario di quella misura in una situazione di quasi completo isolamento.
Il nuovo regime carcerario era stato disposto in seguito alla scoperta di una fitta corrispondenza del Cospito con gruppi anarchici, ritenuta sintomatica di un collegamento con gruppi eversivi di appartenenza, ipotesi che ha legittimato l’adozione di quel grave provvedimento.
Purgatorio o inferno?
La qual cosa, ove quei rapporti epistolari si fossero limitati a contenuti puramente politico-ideologici, costituirebbe una forma di repressione da far invidia alla polizia orwelliana, perché si tramuterebbe nella pretesa di sradicare col ricatto e la violenza dalla mente di un uomo la sua concezione del mondo, bella o brutta essa sia.
Diamo comunque per scontato che Alfredo Cospito, irriducibile nella sua ostilità nei confronti dello Stato e apologeta di azioni violente – è lui stesso in verità ad affermarlo – non sia persona capace di un percorso di rieducazione. Tanto basta, in ogni caso, a legittimare un trattamento carcerario disumano che finisce per procurare una sofferenza gratuita e ulteriore rispetto alla limitazione della libertà ?
Costituisce la norma del 41 bis l’unica misura adeguata, nei tempi attuali, a soddisfare le esigenze cui essa è rivolta? O non si tratta forse di un modo surrettizio di sfogare il potere muscolare dello Stato?
È una pericolosa tecnica di annientamento morale, inaccettabile perché contraria a quei minimi canoni di umanità che deve essere riconosciuta a ogni persona, anche se colpevole delle azioni più abbiette.
Summum ius, summa iniuria
Non si tratta di disconoscere le ragioni di sicurezza dello Stato né di mettere in secondo piano quelle delle vittime dei reati, troppo spesso trascurate. Ma di stabilire che ogni limitazione di libertà deve essere proporzionata a soddisfare le strette esigenze sanzionatorie anche quando si tratta di eseguire una sentenza penale di condanna per fatti gravi.
E, fosse per me, proprio in virtù di questo criterio che dovrebbe informare ogni decisione giudiziale, toglierei quella scritta che compare incisa o scolpita in ogni aula di tribunale “La legge è uguale per tutti” (ché tanto non ci crede più nessuno) sostituendola con quell’aforisma ciceroniano, che è un monito e al tempo stesso invito alla temperanza rivolto a chi la legge deve applicare: “Summum ius, summa iniuria”. (il diritto portato all’estremo può diventare un torto estremo).
E che dovrebbe ripetere a se stesso cento volte prima di emettere la sua decisione.