La parabola della Fiat – La Fiat, nel bene e nel male, ha rappresentato l’apice della potenza industriale italiana nel secolo appena trascorso.
Nacque dallo sforzo condensato della borghesia produttiva piemontese più aperta alle ansie di rinnovamento tecnologico affiorate durante la Belle Epoque.
Si intuì il valore rivoluzionario dell’automobile che ben presto, da oggetto di lusso riservato a pochi, trasfigurerà a “veicolo di massa”.
Mezzo determinante per i rapidi spostamenti in una nazione morfologicamente impervia e angusta come la nostra.
La guida Agnelli negli anni ‘30
Rilevata definitivamente dalla famiglia Agnelli, unica a credere nel progetto dopo la rinuncia consorziale degli altri soci, la Fiat trovò negli anni Venti e Trenta un valido appoggio nel Governo Fascista. Mussolini comprese il valore strategico dell’azienda, la sua capacità di dare un volto “autarchico” al comparto automobilistico e ne agevolò la crescita.
Nel frattempo, l’Italia del motore si colorava di altri sigilli: Lancia, Alfa Romeo, Maserati e, non più tardi, Ferrari.
Il connubio Stato-Fiat si mantenne inalterato anche nel dopoguerra.
La Fiat guida la ricostruzione
Fu la chiave di volta dello sviluppo industriale postbellico. La Fiat 500, regina europea delle utilitarie, ben si adattava alle ristrettezze territoriali italiche e alla tenacia “piccolo-borghese “della sua popolazione. Configurò il simbolo del boom economico degli anni 50, prima che gli strascichi dell’operaismo sindacalista e comunista non ne divorassero prestigio e spinta propulsiva originaria.
Giunsero anche gli anni della crisi, con le casse integrazioni a scapito della collettività. Scioperi a menare le danze e aiuti di Stato che narcotizzarono lo stimolo imprenditoriale e pionieristico della stessa dinastia Agnelli, abbarbicata sulla sua posizione di privilegio.
Ciò nonostante di positivo abbiamo gli insediamenti nel Sud Italia (Melfi, Termini Imerese , Termoli, Pratola Serra) che alleviarono la diaspora di meridionali verso il nord.
Senza contare l’assorbimento nel suo alveo del gruppo Ferrari, salvato dagli appetiti delle “major” automobilistiche d’oltreoceano (Ford e GM).
L’Avvocato massone
Agnelli restava pur sempre un massone bildeberghiano legato a Kissinger e ai poteri forti, amante del jet set, dei vizi e della mondanità di lusso.
Enormi demeriti nel corso della sua conduzione ne ebbe, ma al netto di un fondamentale pregio: quello di aver sempre salvato la stabilità e l’italianità di fondo della sua azienda e degli altri marchi nazionali da essa rilevati. Almeno fino a quando è rimasto lui al timone.
Marchionne e la nuova gestione
Con la sua dipartita lo scettro passò al nipote prediletto John Elkann, in luogo anche degli sventurati Edoardo e Giovannino. Tale trapasso significò anche la metamorfosi kafkiana dello stile Agnelli.
Si ha che l’azienda esce dell’orbita degli aiuti statali. A tal riguardo, l’emblematico rifiuto di Marchionne di salvare Termini Imerese dalla sua chiusura, malgrado le offerte del governo.
Italia Addio
La Fiat si tira fuori con le proprie mani dalla crisi, si concede una nuova linea, torna competitiva sui mercati senza più vivere di assistenza. Il dazio da pagare di tale distacco, però, sarà salatissimo per l’Italia.
Equivarrà a una strategia mirata sempre più alla finanziarizzazione del gruppo.
IFIL assurge ad Exor, una holding globale i cui interessi guardano ad orizzonti più ampi, ben lontani dall’austero universo sabaudo-piemontese.
Propositi suggellati nel cambio di sede legale: non più Torino, ma Amsterdam, con il voltafaccia allo stato italiano materializzatosi anche in guisa fiscale.
La guida Elkann
John Elkann, che dal nonno ha ereditato il cinismo ed una certa solennità oratoria, si fa le ossa nell’ambiente cosmopolita newyorkese. Tale retroterra consacra la sua caratterizzazione di businessman, più adatta ai canoni del globalismo neoliberista, molto meno alla filosofia imprenditoriale della sua casata materna.
Non si spiegherebbe altrimenti la disinvoltura dietro ad operazioni come quella con Chrysler e recentemente con PSA che ha dato luogo alla nascita del gruppo italo-francese Stellantis.
Riprova di tale orientamento anche nella scelta editoriale: la Exor nel 2015 rileva dai Rotschild la proprietà dell’Economist, principale megafono della City e della neovulgata mondialista.
Qualcuno più ferrato in economia taglierebbe corto e parlerebbe di scelta obbligata l’idea di accorparsi in multinazionale, dettata dalla spietatezza della competizione globale, dalle nuove prospettive dei mercati verso i “motori ibridi” , settore tecnologico di cui FCA sembra ancora carente (di qui l’apporto della Peugeot meglio legata alle realtà asiatiche)
Resta il fatto che FCA, ora in Stellantis, segna un ulteriore cedimento della nostra autenticità in campo industriale. L’ingegno e l’inventiva dei Romeo, dei Ferrari, dei Maserati restano paradigmi inalterati del nostro tessuto genetico.
Nessuno magari riuscirà a privarcene, ma servirà a qualcosa in una cornice così fluida, aleatoria, laddove i confini e i colori nazionali vanno sempre più svaporandosi nella nuova babele mercantile?