Meloni, Segre, manganelli e la democrazia nostrana – Leo Longanesi, la cui personalità fu prima di tutto quella di artista a tutto tondo, e non quella di intellettuale – etichetta a lui ostile – ci ha lasciato una testimonianza verace e priva di bellurie dell’essere umano, prima di tutto, e dell’essere italiani, trattando le tematiche e i concetti più svariati attraverso aforismi taglienti, battute mordaci, racconti e dialoghi, reali o fittizi, come quello che segue:
Roma, 19 agosto 1944
«Lei è democratico?»
«Lo ero.»
«Lo sarà ancora?»
«Spero di no.»
«Perché?»
«Perché dovrebbe tornare il fascismo, soltanto sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia.»
La democrazia
La democrazia, termine polisemantico, protagonista della nostra epoca e della contingenza storica che stiamo vivendo – Paese Italia compreso, dove l’allarme per la tenuta democratica del Paese è stato rilanciato più volte oggi più che mai – ci fissa dall’alto della sua saggezza e della sua gravosa presenza, quasi fosse il convitato di pietra che nessuno osa toccare, né avvicinare, né tantomeno mettere in discussione. A meno che… a meno che a vincere le elezioni elettorali – democraticamente svoltesi – non siano quelli che non piacciono. A meno che alla guida del paese non ci siano gli “altri”.
La vittoria del centro-destra
Dalla vittoria elettorale del centro-destra si possono enumerare una serie di date che inducono ad una riflessione.
Partiamo dal principio. Il 26 settembre scorso, quando il centro-destra ha suggellato la sua vittoria elettorale, ho avuto occasione di osservare le reazioni scandalizzate degli utenti inondare i social con ‘post’ e ‘storie’ che, riscuotendo ‘mi piace’ e consensi vari, volevano narrare e rendere partecipi di quanto stesse accadendo sotto lo Stellone d’Italia. In molti si sono prodigati nel rispolverare dalla teca termini, motti ed espressioni quali «Resistenza. Oggi più che mai». Qualcun’altro lamentava esterrefatto che addirittura le lancette dell’orologio sono tornate indietro al 1922, equiparando il futuro esecutivo all’esperienza fascista italiana del ‘900. Altri, invece, sventolavano la bandiera dei ‘diritti’ e addirittura c’era chi si appassionava mettendo in mostra una forca. Il che ha suscitato in me una domanda: chi era il pendaglio da forca a cui si faceva implicitamente riferimento?
Una delle “tante finzioni”
Cionondimeno, questa svolta alla guida del Paese non la definirei tale e non mi preoccuperei più di tanto fossi in chi è allibito dalla vittoria del centro-destra. Quest’alternanza al potere altro non è che una delle «tante finzioni di cui si nutre la democrazia» , la quale garantisce unicamente la sopravvivenza del concetto spietato di «libero mercato», all’interno del quale il ceto medio è il solo che, pur dividendosi in fazioni, non ricava alcun vantaggio sostanziale, poiché la spartizione del guadagno – elettorale o meno – avviene tra i vincitori e i “perdenti”, le cosiddette «oligarchie politiche» capaci di mantenere in equilibrio tra loro quel gioco di ‘do ut des’ funzionale all’interesse di classe, ossia «l’autoconservazione, il mantenimento del potere e dei vantaggi che vi sono connessi» .
Il discorso della Segre
Il 13 ottobre scorso, data di inizio della XIX legislatura con il primo passaggio istituzionale, abbiamo assistito ad una scena quantomeno originale che ha suscitato meraviglia: l’apertura del Senato, com’è consuetudine all’inizio di una nuova legislatura, è stata presieduta dalla senatrice a vita Liliana Segre, testimone vivente delle leggi razziali e dell’Olocausto, che ha dovuto annunciare l’elezione a presidente del Senato di un avvocato penalista, ex appartenente politico all’MSI e membro, nonché fondatore di Fratelli d’Italia Ignazio Benito Maria La Russa.
Qualcuno ha fatto notare il paradosso dell’accaduto scrivendo che si è trattato di un ghigno della storia, che «con la sua proverbiale ironia» ha fatto sì che Ignazio La Russa e Liliana Segre, culturalmente e politicamente agli antipodi, si incontrassero e si scambiassero un saluto istituzionale per l’avvenuta elezione del primo a presidente del Senato.
A chi si dispera con fare teatrale e si sconcerta per quanto è accaduto, bisognerebbe far notare che la circostanza non è esclusivamente il frutto della casualità o semplicemente della contingenza storica. Parte della responsabilità di questo stravagante incontro spetta a quell’elemento agente che è stato citato sin dall’inizio: la democrazia. O meglio, il gioco della democrazia rappresentativa, un sistema di meccanismi e di pesi capace di regalare qualcosa di “impossibile” a detta degli alfieri della democrazia stessa. Eppure è andata così.
Gli scontri alla statale
L’ultimo evento che prendo in considerazione è lo scontro tra gli studenti e la polizia alla Sapienza di Roma in occasione di una conferenza sul «Capitalismo buono» organizzata da Azione Universitaria il 27 ottobre scorso. Evento che merita una riflessione più ampia.
La vicenda è questa. Un gruppo di studenti, tra cui alcuni appartenenti ai collettivi studenteschi, è arrivato allo scontro con gli agenti delle forze dell’ordine nel tentativo di irrompere nell’aula magna universitaria dove si teneva l’intervento – chi per interrompere la conferenza e chi per esprimere soltanto il proprio dissenso a parole.
Da diverse parti si sono alzate subitaneamente le voci di indignazione e di denuncia per non aver lasciato esprimere agli studenti la propria opinione ed essere stati oggetto di violenza, tacciando di ‘fascista’ la reazione della polizia e coinvolgendo tout court il nuovo esecutivo quale responsabile dell’accaduto.
È stato detto e scritto che l’università dev’essere un luogo di sapere e di confronto tra persone, un luogo dove ad ognuno dev’essere garantita la libertà di esprimere il proprio pensiero e che ogni forma di violenza non è giustificabile. Tuttavia, viene da sorridere ascoltando questo profluvio di belle parole solidali e vedendo questa levata di scudi da parte degli alfieri della giustizia democratica, in primis da parte dei collettivi. È sorprendente come improvvisamente le università siano ri-tornate ad essere spazi di condivisione e soprattutto di libertà di incontro.
C’è violenza e violenza
Ad ogni modo, il mio è un sorriso amaro perché se l’agitare i manganelli per menare è una forma di violenza palese ed evidente agli occhi di tutti, dato che si vede e si percepisce lo strumento brandito per colpire, ebbene, esistono altre forme di violenza, meno esplicite e più subdole come la certificazione verde, zelosamente richiesta per accedere nelle università italiane nei mesi precedenti. Gli stessi luoghi che i giornalisti e i collettivi oggi definiscono baluardi di libertà e luoghi sacri per la difesa dell’uguaglianza.
Vorrei far notare che i manganelli impiegati dalla polizia contro gli studenti universitari alla Sapienza sono gli stessi manganelli adoperati contro i giovani manifestanti che a gennaio scorso protestavano contro la morte di un loro coetaneo avvenuta nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro.
I manganelli di Roma e Torino equivalgono agli idranti utilizzati dalla polizia a Trieste durante le proteste contro l’introduzione del Green Pass sul luogo di lavoro. Eppure, non ricordo uno sconcerto così risonante, né tantomeno la solidarietà nei confronti di chi manifestava per un compagno morto o men che meno per chi non voleva piegarsi ad una forma di violenza ricattatoria che impediva alle persone di lavorare e dunque di pagarsi da vivere. Evidentemente, i diritti, come la libertà di espressione, sono meri punti di vista, ognuno desidera, pretende e lotta per i diritti che vuole, quelli che più lo aggradano. Perciò, la si finisca di strepitare sempre la parola ‘diritti’ tanto per accodarsi al flusso culturalmente e politicamente più in voga pensando di aver compiuto il proprio dovere quando poi esistono altre forme di discriminazione che non si vogliono o si fingono di non vedere. Sarebbe più coerente se si dicesse che anche nel campo dei diritti esiste una gerarchia dei diritti. Il che avrebbe tutto più senso e sarebbe sicuramente più accettabile.
La maggioranza degli studenti e dei collettivi che oggi lamentano la violenza ‘fascista’ all’interno delle università, dovrebbero prima chiedersi dov’era quando nelle piazze si manifestava contro uno strumento di controllo sociale che consentiva alle persone di poter accedere a luoghi pubblici sottostando a determinate condizioni, come ad esempio l’università. Non era anche quello uno strumento ‘fascista’, visto che l’etichetta di ‘fascista’ torna comoda ad ogni stagione nel momento in cui si pratica qualsiasi forma di violenza? O forse sarebbe meglio definire il Green Pass come il frutto di una forma di controllo invasiva di stampo liberal democratico? Eppure, gran parte di queste realtà si è risvegliata adesso dal letargo, dopo un lungo periodo di libertà violate all’interno di un vero stato di polizia messo in piedi nei mesi passati a partire dal secondo governo Conte. Lo stesso ex presidente del Consiglio che oggi definisce il decreto ‘anti-rave’ che introduce il nuovo articolo 434 bis del Codice penale come una raccapricciante «norma da Stato di polizia» . Tutto questo è esilarante.
In definitiva, la democrazia
Usando un’espressione da bar, senza troppi fronzoli e senza troppi ragionamenti astrusi, si potrebbe dire semplicisticamente che «la democrazia è questa roba qua».
La democrazia è quel regime politico che per vivere – o, meglio, per sopravvivere – deve persuaderti che ognuno di noi ha il «diritto di…», che ognuno di noi è «uguale a…», che ognuno di noi è «libero di…». Tuttavia, esiste sempre quella postilla, quella sbavatura d’inchiostro che sfugge e mostra il vero volto del regime democratico, al cui interno esiste tra i tanti paradossi quello di vedere tacciato di essere ‘fascista’ il governo attuale perché agisce contro la libertà, quando sono stati gli stessi membri dei governi precedenti, adesso assurti al ruolo di inquisitori, ad aver applicato norme liberticide.
La democrazia, così come ogni regime politico, non può essere sostenuta apoditticamente, altrimenti si rischia di cadere nel ridicolo. Cianciare di democrazia come regime di libertà tout court o cianciare di egualitarismo e diritti come basi essenziali per l’esistenza di ognuno di noi e poi lagnarsi se non si condividono i risultati dei meccanismi democratici o se i diritti non vengono garantiti – prima i miei e poi forse i tuoi – è mero gesuitismo.
Il punto di frattura che risiede nella democrazia è l’atto di elevare quest’ultima a dogma, e questa promozione è ciò che accade anche nella nostra società, la quale si ammanta di concetti innalzati e celebrati come validità assolute. La democrazia è Dio e religione al tempo stesso. Una religione dotata di un buon apparato di predicatori che si dimenano e sfiatano alzando il tono della voce cercando di persuadere le masse, adepte di un conformismo politico che non lascia scampo. È il prodotto del milieu culturale dove siamo nati e cresciuti, una scusante che potrebbe discolparci: è colpa nostra ma non è colpa nostra. Tuttavia, la forma mentis democratica manifesta il suo instancabile paradosso, e chi non lo vede o finge è complice.
E così ritorniamo al dialogo di Leo Longanesi citato all’inizio. Longanesi, che è stato fascista e poi antifascista – per il semplice gusto di andare sempre contro e far emergere sempre le contraddizioni – alla domanda «Lei è democratico?» risponde che lo è stato, lasciando al lettore la discrezionalità di interpretare arbitrariamente la conversazione: probabilmente Leo Longanesi non voleva più essere democratico non perché temesse un ritorno del fascismo, bensì perché si era reso conto di quale creatura malvagiamente proteiforme è la democrazia e forse perché il suo desiderio era quello di non essere fagocitato dalle incoerenze ipocrite della maggioranza democratica.
Questo non è fascismo. Questa è la liberal democrazia.
Riccardo Giovannetti