Le pensioni sono una scommessa? – Vi è stato mai detto che la pensione è una scommessa?
Certo che no, altrimenti chi pagherebbe il contributo mensile senza chiedere spiegazioni?
La pensione è una scommessa
In realtà la pensione è una scommessa legata a vari fattori: Il primo fattore è l’aspettativa di vita media, ovvero i sistemi pensionistici devono tentare di indovinare quanti anni potrete vivere dopo essere andati in pensione. Gli enti pensionistici sperano in molte morti premature. Non so se avete notato l’euforia mascherata da parte dell’Inps quando le fasce più anziane sono morte per Covid. Tutti soldi risparmiati e subito nuovi calcoli sul tesoretto derivante da quell’evento. Oggi, l’aumento della vita, è un fattore che fa saltare i calcoli sulle pensioni e i trattamenti al Gennaio 2022 sono stati di 17,7 milioni, su un totale di
16 milioni di pensionati, 8,3 milioni di uomini e 7,7 milioni di donne. Altro fattore importante per l’erogazione costante delle pensioni è la denatalità. Il sistema pensionistico italiano è basato sulla forza lavoro che paga la pensione a chi non lavora più. Una variazione di questo rapporto determina il calo dei
contributi e quindi delle pensioni. C’è poi la mancata sorveglianza sullo spostamento delle fabbriche dall’Italia verso Paesi a basso costo di manodopera ha creato disoccupazione e decremento degli
stipendi, e dei contributi pensionistici. Anche questo fattore ha determinato uno squilibro del sistema pensionistico italiano. Da notare come Paesi quali la Germania e la Francia hanno sempre perseguito una politica di stretto controllo sulle delocalizzazioni. In Italia, sia il governo che i sindacati sono stati molto
negligenti sull’argomento. A causa della mancata attenzione dei governi passati sui fattori sopra elencati,
l’Inps prevede oggi un suo patrimonio netto negativo di 92 miliardi nel 2029. Questa cifra potrebbe voler dire un calo delle erogazioni per la stessa cifra.
Quanto possono durare le promesse sulle pensioni?
Oggi si sente parlare di “quota 102” e questo vorrebbe dire un’uscita a 64 anni con 38 anni di contributi versati. Un sogno rispetto alla situazione di oggi. Teoricamente si dovrebbe guardare alla somma tra gli anni di età e gli anni di contributi, ovvero 40 anni di contributi sommati a 62 anni di età farebbero sempre 102, ma, in realtà il 64 è considerato un minimo, indipendentemente dagli anni di contributi. Quindi, nella realtà, forse neanche con 41 anni di lavoro si potrà andare subito in pensione.
Sempre per uscire dal mondo dei sogni, la Commissione europea, ovvero il governo di Bruxelles, sta già chiedendo un’uscita dal lavoro a 71 anni per chi inizia a lavorare oggi. Significativa la frase pronunciata dal ministro dell’economia Giorgetti, appena insediato: “L’agenda la fanno le emergenze e l’emergenza di oggi è il caro vita”. E addio promesse sulle pensioni, Lega o non Lega.
Ma poi, quanto ci si può fidare sulla durata di una promessa fatta su un deficit dell’Inps di 92 miliardi fra sei anni?
Un confronto con il resto d’Europa
Il confronto, per essere letto bene, dovrebbe considerare diversi dati indicatori relativi alle singole nazioni, di fatto i Paesi più indebitati d’Europa, sono ai primi posti come uscita tardiva dal lavoro: prima la Grecia e seconda l’Italia. L’Italia ha una media di accesso alla pensione di 66 anni e 7 mesi, la Germania di 65 anni e 4
mesi, la Gran Bretagna di 65 anni e la Francia di 63 anni, tutti dati tarati sugli uomini.
Quanto incidono le pensioni sul bilancio dello stato italiano?
Come detto, i pensionati al 2021 erano 16 milioni con un costo di 312 miliardi/annuo su un totale di 897 miliardi di uscite dal bilancio dello Stato. Quindi, il deficit di 92 miliardi previsto in modo crescente tra sei anni, rappresenterebbe il 29,4% delle erogazioni totali. Una cifra enorme. Ovvero, siamo quelli che vanno in
pensione più tardi nella UE e, per di più, con un sistema pensionistico scassato. Da notare che, fino al 1967, l’Inps aveva seguito gli schemi economici del fascismo e la gestione patrimoniale era ancora in perfetto equilibrio.
Da dove arrivano i soldi per le pensioni?
Innanzitutto si deve precisare che versare per la pensione è obbligatorio per due ragioni. La prima ragione deriva anch’essa dal periodo fascista quando si volle tutelare la vecchiaia di chi aveva lavorato per tutta la vita. Oggi prevale come obbligo la necessità di finanziare una baracca che fa acqua da tutte le parti.
Come risoluzione, si può pensare di stampare soldi a oltranza per finanziare le pensioni? La BCE, con Draghi, aveva messo in bilancio la stampa di 1.850 miliardi per finanziare i deficit dei vari Paesi UE ma, come prevedibile, la misura ha prodotto un’inflazione vicina all’11,5%, come dato di oggi, Ottobre 2022.
Di questa marea di soldi, solo nel 2021, ne sono stati dati 107 al governo Draghi per pagare il deficit di bilancio (ma non era il governo dei Migliori?), e, ovviamente una quota è stata utilizzata per pagare le pensioni. E adesso inizia il periodo durante il quale i debiti tornano a pagare interessi alti; quindi, il deficit sui costi dello Stato aumenterà a dismisura (ancora un grazie a Draghi).
Tradito il patto generazionale
Come visto, i giovani che iniziano a lavorare oggi hanno la prospettiva, se va bene, di andare in pensione a 71 anni. Una vera ingiustizia, perché il voto dei pensionati non dovrebbe pesare di più rispetto a quello dei giovani che pagano i contributi. E, se oggi, da una parte è vero che una famiglia su tre sprofonderebbe senza il sostegno del nonno pensionato, dall’altra parte cresce la marea di anziani che si trasferisce alle Canarie o in Portogallo per godere di una pensione più alta.
La condizione ideale e i rimedi
La condizione ideale sarebbe quella di Paesi come la Svizzera o il Cile (detto a bassa voce per via di una riforma attuata da Pinochet) dove la pensione è stata l’accumulo dei risparmi durante la vita lavorativa, custoditi in un conto nominativo (come per una banca), al riparo dai privilegi che hanno dato una bella spallata ai conti dell’Inps. Un esempio? La Rai stipendia 1.800 giornalisti che guadagnano mediamente 144.000 euro all’anno, senza che 1.500 di loro abbiano un reale impiego, con 210 capi redattori tra quei 1.500. Tutti loro fanno parte dei 49.000 boiardi di Stato, in massima parte nullafacenti e incapaci. E tutti prenderanno pensioni a cinque zeri, se non si interviene.
Per i lavoratori stranieri
Sempre come recupero del gettito e dei costi pensionistici, per i lavoratori stranieri va applicata la stessa regola in vigore in Paesi come l’Australia, il Canada o la Nuova Zelanda. Quasi esclusivamente con contratti di lavoro a tempo determinato e nessun accumulo contabile dei contributi pensionistici. Altra misura deve essere il ripristino della legge 375 del 1944 con i rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle aziende al fine di controllare i
possibili tentativi di delocalizzazione. La legge fu cancellata nel dopo guerra grazie al PCI e alla CGIL.
Poi, per far ripartire la natalità, vanno rivisti i contributi destinati all’accoglienza e al Terzo settore, oggi quantificabili in 15,5 miliardi all’anno, per destinarne una quota a chi decide di mettere al mondo dei figli dal secondo compreso in poi. Considerata la natalità attuale di 1,24 figli per famiglia. Sempre come rimedio, l’erogazione dei sussidi per la disoccupazione va condizionata alla disponibilità a collaborare a lavori sociali, quali l’assistenza agli anziani o la pulizia di spiagge e boschi. Infine, un discorso va fatto sulla bolletta energetica che l’Italia pagava già prima degli attuali aumenti. Nel 2021 era di 55 miliardi all’anno e un piano energetico che comprenda il nuovo nucleare, sarebbe da solo sufficiente a scongiurare il deficit dell’Inps previsto in 92 miliardi tra sei anni.
Carlo Maria Persano