La distruzione del regime di Bashar Al-Assad è stata inattesa e molto rapida, così come sempre accade quando certi blitz sono preparati da tempo.
Per una parte della popolazione, il crollo del potere che ha dominato la Siria per oltre cinquant’anni rappresenta una liberazione. Per altri, non è affatto così. La frammentazione interna e le influenze esterne rischiano di mantenere il levante siriano un enorme campo di battaglia.
L’analista Lorenzo Trombetta, su Limes n. 12/2024, sostiene che la Russia indebolita, gli Stati Uniti in attesa e la Turchia rafforzata mantengono una presenza significativa, supportati da milizie locali ribelli.
L’avanzata dei jihadisti filoturchi da Idlib a Homs, favorita dalla destabilizzazione regionale seguita agli eventi del 7 ottobre 2023, ha riacceso focolai di ribellione, mai del tutto sopiti.
A sud, lungo il confine con la Giordania e le alture del Golan occupate, altre forze ribelli hanno marciato verso Damasco, ormai vulnerabile e abbandonata.
Una perdita d’influenza
La Siria di Assad, sostiene sempre la rivista Limes, era il fiore all’occhiello del Cremlino, quale proiezione strategica oltre i confini di quella che fu l’Unione Sovietica. Oggi si traduce in perdita d’influenza nella regione mediorientale e di immagine anche nell’attiguo continente africano.
Le basi militari di Putin in Siria erano fondamentali per lo sbocco della Federazione Russa nel Mediterraneo, ma anche un presidio geograficamente importante da controllare per evitare accessi indesiderati di terroristi o soldati nemici.
Media ed analisti russi si sono espressi in vari modi, molto spesso contrastanti, sulla scelta di non intervenire da parte del loro Presidente coi suoi generali.
Alcuni hanno dato ragione a Putin, altri hanno parlato di “errori” e di “segnali di debolezza”, altri hanno detto della necessità vitale di concentrare le forze solo in Ucraina e di chiudere la partita con Kiev entro la Primavera, al massimo. Infine, c’è stato chi ha inquadrato “l’abbandono” del teatro siriano all’interno dei cambiamenti radicali che l’ordine globale sta registrando, dopo che Mosca ha deciso di attaccare Kiev e dare una spallata all’ Occidente, già sulla via del tramonto.
Quest’ultima ipotesi potrebbe sembrare la più plausibile ed accreditata, laddove Putin ritenga che la Presidenza Trump, che si insedierà tra poche settimane, voglia fare da garante per un cessate il fuoco duraturo.
Le ragioni del Cremlino
ll giovane ricercatore russo Ivan Bočarov, esperto di Siria e Program Coordinator al Russian International Affairs Council di Mosca, ha raccontato a Limes le ragioni per cui il Cremlino non ha contrastato la caduta di al-Asad.
“Innanzitutto, spiega Bočarov, perché in questo momento la Russia ha altre priorità e compiti, poi perché gli sviluppi in Siria sono stati così rapidi da non permettere una risposta adeguata e infine a causa di una situazione del paese mediorientale che negli anni non si è sviluppata: nessuna riforma attuata, nessun dialogo con l’opposizione, nessuna evidente prospettiva per il potere”.
Di parere sostanzialmente diverso Ruslan Pukhov, direttore del Centro analisi di strategie e tecnologie, che senza mezzi termini imputa alla leadership della Federazione russa una serie di errori fatali per la “disfatta” siriana.
L’esperto militare russo vede nella “lunga guerra in Ucraina” il conseguente indebolimento di Mosca in terra siriana, a riprova dei limiti come grande potenza della Federazione, che non ha forze militari, risorse, influenza e autorità sufficienti per un intervento efficace al di fuori dell’ex Unione Sovietica.
Fëdor Luk’janov, direttore di Russian in Global Affairs sostiene che, nell’attuale contesto internazionale, “primeggiare non ha più molta importanza. Meglio pensare a stabilità e sviluppo assumendo una postura in grado di rendere persino non offensiva la definizione di “potenza regionale”, che l’allora presidente americano Obama affibbiò alla Russia post-sovietica”.
A chi giova?
Le basi potrebbero essere abbandonate dal Cremlino, che in base all’accordo firmato con Damasco nel 2017 le può occupare legittimamente per 49 anni, sempre se il nuovo governo acconsentirà. Ma le parole distensive del nuovo leader, divenuto improvvisamente da sadico tagliagole a benefattore della Siria amica di Israele, lascerebbero intendere che uno scontro con la Russia non sarebbe neppure nella volontà del nuovo regime siriano.
Infine, proprio perché un attacco ed una caduta così rapidi e dolorosi non si improvvisano, si potrebbe pensare che il Libano fosse stato l’ultimo diversivo e, ancora prima, la guerra contro la Palestina e il genocidio di Gaza fossero propedeutici alla preparazione minuziosa dell’apertura di un corridoio tra Tel Aviv e Teheran, che provocasse un indebolimento della Federazione Russa, a Sud, ed un rafforzamento dei legami con la Turchia di Erdogan, che è lì a fianco.
In quest’ottica, quale Stato sarebbe stato meglio piazzato della Siria?
di Matteo Castagna
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