Reportage dalla Terra Santa parte 7
Siamo a Betlemme, a poche centinaia di metri dal valico di Rachele, uno dei tanti ingressi sparpagliati lungo il muro di confine che permette l’accesso tra Israele e la Palestina. La Cisgiordania.
Appena varcato il muro siamo stati guidati all’interno di un negozio a gestione familiare che vende oggetti di ogni sorta, dai presepi in ulivo ai braccialetti in pietra colorata, dalle croci cosmiche in acciaio di Gerusalemme alle icone votive di una Maria sorridente: anche qui, come a Gerusalemme, un bazar ben fornito, più modesto ma anche più moderno, con tanto di aria condizionata.
Sì, siamo stati accolti in un negozio con tutti i comfort, un’accoglienza riservata a degli ospiti speciali, necessariamente esclusiva vista la prolungata assenza di pellegrini che perdura da mesi e mesi. Si può dire che siamo stati letteralmente dirottati, una tappa forzata in questo negozio perché aiutassimo economicamente questa realtà.
In fondo al negozio, lungo la parete di sinistra, davanti a una porticina anonima, staziona un carrellino delle bevande con termos e brocche in plastica che contengono un buon caffè caldo color nero pece, accanto pile di piccoli bicchierini di carta spessa, dal sapore legnoso, e un bicchierino colmo di zucchero con un piccolo e unico cucchiaio per tutti; qui essere schizzinosi non è concesso.
L’arte di comprare
Veniamo introdotti e ammaestrati sul da farsi, ovvero comprare, da un ragazzo palestinese che con una buona eloquenza persuasiva condisce il suo ottimo italiano.
E quando termina il suo panegirico, si aprono i battenti, dando sfogo a quel bisogno di comprare e possedere, indotto o autoindotto che sia.
In tanti acquistano qualcosa, altri scorrazzano avanti e indietro in quell’immenso spazio, c’è chi si china sopra una vetrina per osservare monili e collane di preziosi, tutti prodotti dell’artigianato locale; c’è chi afferra e rigira tra le dita timidi rosari e umili braccialetti in legno di ulivo; c’è chi si ritrova di fronte a una fantasia di immagini votive su tavolette e non può fare a meno di tradire quella condizione dell’essere prigioniero dell’indecisione.
Il centro di Betlemme
Terminata la nostra visita di lucro – per i commercianti, s’intende – ci avviamo verso il centro di Betlemme sotto un sole bruciante, i cui raggi acuti e violenti trafiggono la nostra pelle disavvezza.
Il paesaggio, naturalmente inteso, rimane immutato, lo sguardo non scorge alcuna differenza tra questa parte del muro e quel pezzo di terra che si trova dalla parte opposta. Tuttavia, quando è visibile l’impronta dell’uomo, quando affiora la civiltà, il paesaggio che ci circonda cambia, ed emerge una diversità che richiama immancabilmente le crude contrapposizioni che esistono tra questi due popoli.
Le case sono dei blocchi di pietra, i tetti piatti, sassi squadrati la cui pietra candida riflette la luce tanto accecante e potente di questo sole, quasi che queste case sembrano emettere luce propria.
Il paesaggio è letteralmente un sali e scendi, brullo, arido e secco, ciononostante la sua fauna non manca, le chiome verdeggianti degli ulivi sbuffano lungo ogni pendio fino a perdersi nel fondo delle vallate.
Modernità fuori luogo
Purtroppo, però, queste schiere poco marziali di umili piante secolari sono spesso falciate, sostituite da case e palazzi spropositatamente alti, veri grattacieli incoerenti con il paesaggio, una modernità fuori luogo e fuori tempo in questa terra antica e già sufficientemente meravigliosa. Mentre osservo tutto questo penso a una sola cosa: che il concetto di ciò che dev’essere funzionale ha tramortito l’estetica, e qui l’impronta è evidente.
Giungiamo alla casa Hogar Niño Dios, dove operano le suore e i preti della Famiglia religiosa del Verbo Incarnato, una congregazione nata in Argentina, i quali portano avanti vere opere di misericordia. Fondata 19 anni fa, le prime due suore furono, ironia della sorte, Gesù e Cristo. In questa struttura si occupano di bambini ammalati, disabili, orfani, affinché possano ricevere il necessario, dal benessere fisico al benessere incorporeo, spirituale.
I bambini orfani e abbandonati
Al nostro incontro sono presenti anche padre Juan e padre Marcello. Qui non esiste distinzione, non esiste selezione, i bambini che abitano questo posto provengono da famiglie sia cristiane che musulmane. Tra le tante motivazioni che spingono questi bambini a ritrovarsi in questa condizione di abbandono, la suora racconta che nella cultura musulmana si tende a nascondere i figli con disabilità, qualche volta capita che vengano esclusi, abbandonati, poiché la menomazione è percepita come il risultato di una maledizione divina, una punizione.
La questione che si presenta alla base di queste scelte è anche di stampo culturale, non solo di ristrettezza economica. Una dimensione di cui sono a conoscenza gli stessi preti e le stesse suore, poiché il problema principale, in questo territorio, è l’assenza di uno Stato forte che, pur avendo una sua legislazione, non è dotato di una struttura organizzativa stabile ed efficiente, in assenza della quale una realtà come Hogar Niño non riceve nessun finanziamento, costringendola a vivere di elemosina, provvidenze e contributi di privati.
Riccardo Giovannetti
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