Reportage dalla Palestina – parte 5
Esiste una vecchia testimonianza del Talmud che recita così:
«Quando Dio creò il mondo di dieci misure di bellezza, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo; di dieci misure di saggezza, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo; di dieci misure di dolore, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo» (Kiddushin 49,2)
È importante sottolineare che uno dei motivi principali di questo pellegrinaggio è l’incontro. Concepiti come confronto, ma soprattutto ascolto, questi incontri sono finalizzati a conoscere nuove coscienze e a comprendere e a capire in presa diretta le infinite sfaccettature delle realtà che queste pietre viventi esprimono attraverso le loro testimonianze.
Volontari nel deserto
È mattina, il caldo è torrido ma secco, tanto meglio, almeno lo si sopporta più facilmente. Ci troviamo all’interno della Procattedrale del Santissimo Nome di Gesù, dentro il cortile della sede del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini, a pochi passi dalla struttura ospitante. All’interno di questa chiesa dalle fattezze architettoniche risalenti al XIX secolo, incontriamo Yisca Harani, una donna israeliana che insegna come volontaria a cristiani, musulmani ed ebrei, senza alcuna distinzione.
Yisca ci racconta la sua esperienza di volontariato nel deserto, a sud, vicino Gaza, un territorio che era colmo di terre coltivate e rigogliose prima dell’attacco, ma che ora sono state abbandonate dopo l’ordine di evacuazione.
In quelle terre, al confine con la Striscia, si trovava sua nipote di 19 anni, che Yisca ha visitato dopo il 7 ottobre: una soldatessa rimasta ferita ma sopravvissuta grazie a due suoi commilitoni che, una volta colpiti, sono caduti distesi sopra di lei proteggendola come scudi umani. In seguito a quest’esperienza, a causa dello shock, sua nipote è riuscita ad alzarsi e ad uscire di casa solo dopo due giorni l’attacco.
Sono molti coloro che, da ambo le parti, dopo quest’esperienza, al di là del giudizio morale delle rispettive azioni, hanno subito danni collaterali sul piano psicologico.
Io sono Yisca
Yisca, rivolgendosi sempre a noi in inglese, lamenta con voce profonda un contesto di conflittualità e di contrasto nel quale vive la totalità della popolazione, sia israeliana che palestinese, una realtà che trasuda perennemente un concentrato di tensione e con la quale si confronta quotidianamente.
E poiché qui non si può non prendere posizione, attraverso il suo attivismo è in costante contatto con tutte le parti schierate in campo, e per rendere afferrabile la situazione stringe il microfono tra le mani e dice: io non sono «side 1 or side 2, my name is Yisca».
Per lei l’identificativo del nome personale è fondamentale, poiché è in questo modo che può ribattere a chiunque vuole contraddirla, affinché possa resistere il dialogo tra le parti in campo.
E come ci spiega subito dopo, questa sua esternazione è anche figlia di una grande delusione provocata da alcuni suoi amici, molti dei quali cristiani, che dopo l’accaduto di ottobre scorso non l’hanno chiamata per chiederle come stesse né tantomeno cosa ne pensasse, pur conoscendo il suo impegno di volontaria nel costante tentativo di conciliare le parti.
Tuttavia, è riuscita a vivere anche momenti che l’hanno rincuorata quando ha ricevuto la chiamata del patriarca latino di Gerusalemme.
Il 7 ottobre
L’evento di ottobre scorso, che ha attirato l’attenzione dei riflettori mediatici, non può assolutamente essere percepito come un evento isolato, non può essere l’equivalente di un sasso che viene preso e lanciato nel mezzo di uno specchio d’acqua, capace di smuovere per pochi minuti le calme acque e poi sprofondare nel buio dell’indifferenza come se niente fosse successo.
Questo approccio non renderebbe giustizia alla Storia di questa terra, perché la morte che sta calpestando quel lembo di territorio a sud della Palestina è il risultato dell’aver sottratto – o impedito – a un nocchiero l’officio delle briglie della violenza e della vendetta.
Come suggerisce la relatrice stessa con voce decisa e perentoria, se di fronte alle piccole questioni chiudiamo sempre gli occhi, allora ci toccherà prima o poi affrontare la questione più grande e ingigantita, ed è quello che è successo il 7 ottobre, che rientra a pieno titolo nella casistica.
Tuttavia, ciò non toglie che già prima del 7 ottobre la società era già polarizzata: è innegabile che il tessuto sociale fosse diviso tra chi vive l’esclusione e chi vive l’inclusione.
E un esempio è il 2006, quando ai coloni israeliani venne fatto obbligo di lasciare Gaza, con la conseguenza di eliminare la possibilità della convivenza e segnando i coloni a vivere questo momento come una forma di esclusione a danno loro.
Cacciate perché cristiane
Così com’è indubbio che il problema è la società civile: se la risposta non arriva da lì, è difficile che esempi come quello delle suore e degli armeni possano trovare una soluzione: le prime continueranno a girare sempre scortate e mai libere dagli insulti, i secondi ad essere oggetto di sputi.
Già, qui a Gerusalemme vive una comunità di suore ucraine, anche se in verità non si possono definire vere suore, le quali indossano un cappello con una grossa croce rossa e vengono sempre scortate dalla polizia in borghese nelle strade della città, poiché quando arrivano al mercato, una donna puntualmente si apposta per insultarle e cacciarle in quanto cristiane.
Anche questa circostanza rientra in quella casistica delle piccole questioni che, se non affrontate, portano inevitabilmente all’implosione di un problema più grave.
Così come ci sono gli ebrei della frangia più radicale che sputano contro gli armeni quando devono attraversare il quartiere armeno per recarsi presso il Muro Occidentale. Alla volontaria è capitata la medesima sorte mentre cercava di spiegare con alcuni colleghi perché gli ebrei non devono essere ostili verso gli armeni.
Ma si ritorna sempre lì, la questione deve essere affrontata anche all’interno della maglia sociale, dove si esprime una forte insofferenza.
La soluzione?
Mentre Yisca continua a parlare, una suora mi guarda e si rivolge a me sottovoce: «La soluzione? Non due stati con un confine, ma uno stato laico democratico pluralista. Certo, Israele è uno Stato democratico ma solo per gli israeliani. L’idea, il progetto dei due stati non è più attuabile, guardiamo per esempio ai coloni che vivono in quelle terre da oltre 30 anni, come li mandi via?»
Certo, come li convinci ad andare via se si volesse attuare un nuovo progetto statale? Quei coloni, paradossalmente, un tempo usurpatori, diverrebbero a loro volta le vittime di un esproprio di quella terra che vivono e lavorano, la medesima terra che un tempo era abitata dai palestinesi, a loro volta vittime di un esproprio che va avanti da decenni.
Sì, la situazione è inestricabilmente intricata, un conflitto che difficilmente cesserà nel breve periodo. Ciononostante, Yisca conclude ringraziandoci sottolineando che la nostra presenza qui ad ascoltare è importante, un momento per creare l’inizio del cambiamento nonostante l’essere così piccoli di fronte alla circostanza.
«We are victims of our leaders, we could live together, despite of both cultures and societies (Jewish and Palestinian) are different1».
Riccardo Giovannetti
Note:
- Trad. “Siamo vittime dei nostri leader, potremmo vivere insieme, nonostante entrambe le culture e le società (ebraica e palestinese) siano diverse”
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