23 Marzo San Sepolcro – In questi giorni è caduto l’anniversario della fondazione di un Movimento che avrebbe cambiato la storia d’Italia e non solo.
Domenica 23 marzo 1919 furono, infatti, ufficialmente fondati i Fasci italiani di combattimento.
L’assemblea fu tenuta nella sala riunioni del Circolo dell’alleanza industriale, (presieduta da Cesare Goldmann, un industriale e massone di origine ebraica a cui venne pagato regolare affitto) in piazza San Sepolcro a Milano.
Un’assemblea eterogenea
Tra i fondatori troviamo persone di diversa estrazione sociale ed orientamento politico: reduci della Grande Guerra, arditi, futuristi, nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari, anarchici e repubblicani a riflesso di un certo eclettismo ideologico di questa fase originaria; tra i primi aderenti ci furono anche cinque ebrei.
I punti essenziali del programma erano: il suffragio universale col sistema proporzionale e l’abbassamento dei limiti di età a 18 anni per gli elettori di ambo i sessi; una scuola laica; l’abolizione del Senato, la formazione di Consigli Nazionali eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e col diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di Ministro e, in prospettiva, l’instaurazione della repubblica.
Le istanze sociali
Sul versante sociale si chiedevano le otto ore lavorative effettive, i minimi di paga, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle industrie, l’obbligo dei proprietari a coltivare le terre, pena la confisca di esse e il loro trasferimento a cooperative contadine.
Sul piano finanziario il fascismo propugnava, tra l’altro, una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo e il sequestro dei beni delle congregazioni religiose.
Alla stesura del Manifesto dei Fasci italiani di combattimento aveva collaborato attivamente Alceste De Ambris, un sindacalista, giornalista e politico, fondatore e maggior esponente del sindacalismo rivoluzionario italiano e del movimento repubblicano e mazziniano nonché parlamentare del Partito Socialista Italiano.
Si tratta di un programma che rispecchia l’orientamento del fascio milanese, in mano ad elementi di sinistra, a cui si contrappongono molti altri fasci schierati politicamente a destra.
Un mondo cambiato dopo la Grande Guerra
Si era da poco conclusa la Grande Guerra, un’ecatombe mondiale, che aveva rivoluzionato per sempre gli assetti internazionali e le strutture sociali delle nazioni. Non esisteva più l’Impero Austro-Ungarico, in Russia era caduto lo Zar ed era nato lo stato bolscevico.
L’Italia interpretò la guerra da poco finita come la IV Guerra d’Indipendenza, che portò all’annessione delle “terre irredente” sebbene non tutte quelle a cui avrebbe avuto diritto in base al Patto di Londra.
Milioni di uomini avevano vissuto un’epopea che avrebbe cambiato per sempre le loro vite. Tornati a casa dopo esperienza della trincea non accettavano più di rimanere ai margini di una società che nelle sue istituzioni era rimasta ferma ad un mondo che non esisteva più. L’Italia era ancora una Monarchia liberale, borghese. La sua Legge fondamentale era lo Statuto Albertino.
La terza via di Mussolini
Nascevano i presupposti di quella che Mosse ha definito la “nazionalizzazione delle masse”.
I Fasci di combattimento si fanno interpreti di questa opera di modernizzazione e socializzazione. Coniugano le istanze nazionaliste e combattentistiche (la “vittoria mutilata”) con l’esigenza di diventare protagonisti della vita pubblica. Viene prefigurata una “terza via” tra capitalismo e marxismo dove l’elevazione delle classi subalterne non avviene per mezzo della lotta classe ma attraverso l’introduzione delle stesse nei organismi decisionali dello stato e della produzione.
Ma la Politica è l’arte del possibile e Mussolini lo sapeva bene.
I Fasci di combattimento, espressione del “movimento” fascista, cessarono di esistere il 9 novembre 1921, quando a Roma, nel corso del terzo congresso dei Fasci, fu deciso il loro scioglimento e la nascita del PNF.
Il futuro Duce voleva o doveva tradurre lo spirito rivoluzionario che permeava i primi Fasci in azione di governo. La trasformazione in PNF fu il primo passo verso la conquista del potere che, come la storia insegna, spesso ha richiesto rinunce e compromessi che non impedirono, comunque, la trasformazione dell’ italietta liberale e post-risorgimentale in una nazione moderna.
Il coinvolgimento delle masse
Lo Stato sociale, la Carta del Lavoro, la riforma in senso corporativo della rappresentanza parlamentare, la ricerca e la realizzazione del consenso attraverso un coinvolgimento delle masse in un rapporto diretto con il “Capo” resero l’Italia qualcosa di molto diverso da ciò che era prima.
Per altro elementi di un fascismo “movimento” germogliarono o continuarono ad esistere anche durante il regime. La scuola di Mistica Fascista con Niccolò Giani e Guido Pallotta, la rivista l’Universale di Berto Ricci ne sono alcuni esempi.
Come un fiume carsico riemersero durante i tragici 600 giorni della R.S.I.
La Carta di Verona volle essere il manifesto programmatico che, pur con le limitazioni e i condizionamenti della contingenza bellica, riprendeva gli aspetti più rivoluzionari del fascismo delle origini di cui fu, in realtà il canto del cigno.
Cosa rimane oggi?
A distanza di oltre un secolo da quegli eventi cosa rimane di quella esperienza? È possibile trarne qualche indicazione per il futuro al di là di improbabili nostalgismi? “La storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa” (lo ha scritto Karl Marx, ma probabilmente c’è del vero).
Il mondo e la società in cui viviamo sono molto diversi. Le condizioni interne ed internazionali sono mutate profondamente. Il comunismo è fallito. Il vecchio colonialismo è stato sostituto dal neo-colonialismo delle multinazionali. La “Tecnica” ha preso il posto del “Sacro”. Rimane la volontà di difendere la propria identità di popolo fatta di tradizione, religione, cultura, storia. Unita alla volontà di non rassegnarsi ad essere succubi di oscure élites sovranazionali che decidono sulle nostre teste.
Rimane l’ambizione di voler costruire una comunità che possa e sappia realizzare la giustizia attraverso la coesione e collaborazione tra le sue componenti.
La Tradizione è un organismo che vive, è passaggio del testimone dai padri ai figli, che in epoche diverse ed in contesti diversi sanno conservare e tramandare ciò che è perenne.
Antonio Gatti