11-12 novembre 1961: L’eccidio di Kindu – Nel primo quinquennio degli anni Sessanta i territori del Congo, già sottoposti alla dominazione coloniale belga, furono teatro di una sanguinosa guerra civile. Ottenuta l’indipendenza nel 1960, nello stesso anno si svolsero le prime elezioni che diedero la vittoria al partito di Patrice Lumumba, il quale fu eletto alla carica di primo ministro. Il passaggio fu reso difficile dalla partenza degli ufficiali belgi, dapprima rimasti a comandare l’esercito ma poi rimossi e successivamente evacuati; sottufficiali e soldati dell’esercito congolese furono così lasciati in balia di se stessi e nel luglio di quell’anno avvenne la prima strage di Europei a Elisabethville, dove perse la vita anche il console italiano Tito Spoglia.
L’intervento dell’ONU
Pochi giorni dopo, le Nazioni Unite, vista la situazione di disordine in tutto il paese, inviarono una spedizione armata. Ben presto la lotta politica dovette fare i conti con due fattori: quello etnico e quello internazionale. La regione meridionale del Katanga, dove alle elezioni aveva prevalso un partito locale composto da una coalizione di stampo tribale, dichiarò la secessione dal Congo e la sua indipendenza, con l’elezione a presidente del leader Moise Ciombe. Ad appoggiare il neonato stato, il cui territorio era il più ricco dell’intera regione grazie ai giacimenti minerari, furono la compagnia Union Minière du Haute Katanga, di proprietà del Belgio, gli stessi militari del suo esercito appena smobilitati dal governo centrale di Leopoldville, le nazioni bianche di Sud Africa e Rhodesia, oltre a truppe mercenarie assoldate nei paesi occidentali. Lo stesso accadde con la provincia di Kasai, ricca di giacimenti diamantiferi e lacerata da scontri tribali.
L’URSS
Privo dell’appoggio militare dei Caschi blu che non intesero affiancarlo nella lotta contro i secessionisti, Lumumba chiese e ottenne il sostegno militare dell’URSS. I contrasti fra il presidente Kasa-Vubu e il primo ministro Lçumumba portarono a una grave crisi dello stato. Il Congo subì un’ennesima scissione, con la parte occidentale in mano a Joseph-Désiré Mobutu, uomo forte dell’esercito, appoggiato dagli Americani, e autore di un colpo di stato che aveva deposto Lumumba e una parte orientale, pro-Lumumba – nel frattempo catturato dai Katanghesi e ucciso insieme ad alcuni suoi stretti collaboratori – sostenuta dall’URSS e dal blocco orientale. Il Katanga, a sua volta, godeva dell’appoggio di truppe mercenarie dove si distinsero soldati del calibro di Mike Ohare, Bob Denard. e Jean Schramme La situazione di caos portò ad un rafforzamento dell’impegno dell’ONU, che operò soprattutto nella regione del Katanga dove, nonostante la formale revoca della secessione, si continuava a combattere. In questo contesto avvenne l’eccidio di Kindu.
La tragedia italiana
L’11 novembre 1961: due velivoli da trasporto dell’Aeronautica Militare della 46^ Aerobrigata di Pisa assegnati al contingente delle Nazioni Unite in Congo atterrarono all’aeroporto di Kindu, non lontano dal confine con il Katanga, i due aeroplani trasportavano rifornimenti per i “caschi blu” malesi della guarnigione di Kindu. Terminate le operazioni di scarico i tredici uomini, disarmati (tra i quali un ufficiale medico) si portarono nella mensa del presidio militare dell’ONU.
Scambiati per mercenari katanghesi da un drappello di miliziani di Lumumba, che uccisero immediatamente il medico, furono trascinati in una prigione e trucidati nella notte fra l’11 e il 12 novembre. Ad aumentare il peso della tragedia, il giorno successivo la 46^Aerobrigata soffrì la perdita, sempre in Congo, di altri quattro uomini deceduti in seguito all’atterraggio di fortuna tentato da un C-119. I resti mortali dei 13 Italiani, sepolti in due fosse comuni furono riesumati solo quattro mesi più tardi, identificati da alcuni loro colleghi.
Il ritorno in Italia delle salme
L’11 marzo 1962, le salme dei caduti di Kindu giunsero a Pisa a bordo di un velivolo statunitense con la scorta d’onore di caccia dell’Aeronautica Militare e il giorno successivo fu celebrato il solenne rito funebre, alla presenza del Presidente della Repubblica Antonio Segni. Questi i nomi dei tredici martiri italiani che, è lecito sperare, dovrebbero essere ricordati ogni anno per il loro sacrificio consumato nell’adempimento del loro dovere per la patria:
– Maggiore pilota Amedeo Parmeggiani
– Sottotenente pilota Onorio De Luca
– Tenente medico Paolo Remotti
– Maresciallo motorista Nazzareno Quadrumani
– Sergente maggiore montatore Silvestro Possenti
– Sergente elettromeccanico Martano Marcacci
– Sergente marconista Francesco Paga
– Capitano pilota Giorgio Gonelli
– Sottotenente pilota Giulio Garbati
– Maresciallo motorista Filippo Di Giovanni
– Sergente maggiore Nicola Stigliani
– Sergente maggiore Armando Fabi
– Sergente marconista Antonio Mamone